lunedì 8 luglio 2013

Copertina per "La città dei rifugiati"

Se dovessi stampare su carta la prima parte di "Eclisse dei sentimenti" Proporrei questa come immagine di copertina.
I personaggi rappresentati sono Leyla Hayat, Il konvitato e Nocturne.

Decimo scontro: Aaron Vs. Clearwater. Primo Round.

Thuy appoggiò il tubo di gomma arrotolato, staccò dalla cintura la borraccia, stava per bere quando sentì uno spostamento d'aria fra i capelli corvini e diritti, orgoglio di ogni donna nata ad est del fiume Gange. Si voltò tranquillamente verso il punto dove sarebbe arrivato lo sparo, ad un paio di metri alla sua sinistra. Osservò la terra schizzare via, in un istante capì come erano di­ sposti i cecchini palestinesi, e solo allora si mise a correre in modo da divenire un bersaglio quanto più ostico possibile. Il rumo­re del primo sparo le arrivò alle orecchie una frazione di secondo prima di essere al riparo.
Non aveva nessuna arma con sé, quindi rimase al riparo, mentre i suoi colleghi si preparavano a rispondere al fuoco.
Al momento nessuno si era fatto male.
Adesso era un' ebrea. Stessa cosa che essere annamiti: qualcuno ti spara addosso oppure non lo fa, per ragioni che neanche vuoi iniziare a capire. Rimaneva alta un metro e mezzo e con gli occhi neri come la notte più buia. Mentre i proiettili fischiavano in entrambe le direzioni pensò amaramente: “Son proprio arrivata a casa.”
Thuy veniva da un villaggio a qualche decina di chilometri da Hanoi. Quando era piccola aveva sentito parlare di orrende crea­ ture alte una tesa e mezza, con la pelle rossa, gli occhi azzurri e i capelli gialli. Erano loro i responsabili della periodica fumiga­ zione del suo villaggio.
Ora, volente o nolente era una di loro, Parlava la loro lingua, sebbene ancora stentatamente, e ancora qualcuno voleva distrug­gere il suo villaggio.
Le avessero solo dato un' arma.
Le avevano spiegato che era finita in un popolo di agricoltori e ricercatori, che aborrisce il terrorismo come deterrenza.
Mentre la battaglia infuriava si chiese cosa intendessero dire: lei stessa era pure una contadina, ma aveva sempre saputo che bi­sogna difendere la libertà con la massima ferocia possibile dall'inizio.
Sapeva anche che quello era il motivo per cui in quel momento non aveva un' arma.
Trovò la cosa piuttosto ridicola: i contadini a sparare al nemico e lei, che era una guerriera, nascosta come uno scarafaggio.
I nemici ancora non erano andati via.
Thuy si guardò intorno e vide uno dei ragazzini del villaggio, armato di fucile, uscire dal proprio nascondiglio. Era quello che aveva il padre in coma, pensò di prenderlo e costringerlo a ripararsi, ma anche se era una donna molto forte era molto più picco­ la di lui, non ci sarebbe mai riuscita in tempo utile.
Il ragazzino cominciò ad avanzare camminando, i proiettili gli passavano intorno, lui tranquillo rispondeva al fuoco.
Con disappunto si chiese in vietnamita: “Quello sarà un contadino o un ricercatore, da grande?”
Decise di lasciarsi prendere da un decimo di secondo di sgomento, e a bassa voce mormorò: “se diventerà mai grande.”
Ebbe un' idea per terminare la battaglia. Raccolse da terra un sasso delle dimensioni di un limone e lo mise nella sua borsa por­taoggetti, si sciolse la coda di cavallo per assumere un aspetto più intimidatorio e risoluto, quindi scattò dal suo nascondiglio, e correndo descrisse un' ampia curva, scartando spesso per spostare di colpo la propria figura da eventuali linee di tiro.
I nemici erano a circa trecento metri di distanza, nascosti dalle asperità del terreno, indecisi se continuare a prendere di mira il ragazzo che si stava avvicinando o Thuy, e resisi conto che questo sapeva usare il fucile molto meglio di loro, interruppero il fuoco per ripararsi. Thuy se lo aspettava.
Senza smettere di correre prese dal tascapane il sasso che aveva appena raccolto, e portandolo vicino alla bocca mimò l'innesco di una bomba a mano.
Lanciò il sasso in aria con un ampio movimento di tutto il corpo, che terminò in una capriola in aria.
Il sasso non avrebbe fatto neanche metà strada, ma la vietnamita sperava che nella concitazione i nemici non lo avrebbero rea­ lizzato in tempo.
Funzionò: i nemici si misero a correre in direzioni diverse, Thuy completò il ruzzolone e si mise a correre verso il ragazzo.
Questo prese la mira su uno dei nemici e sparò, colpendolo ad una gamba.
“Un colpo fortunato” pensò Thuy, riconoscendo il suono di un proiettile che si conficca nella carne invece di rimbalzare contro il terreno o contro un sasso.
I nemici erano solo due.
Non aveva alcuna esperienza con i palestinesi, non aveva idea di cosa avrebbe fatto l'altro.
Arrivata vicino al suo alleato gli chiese se aveva un' arma secondaria, lui senza abbassare il fucile rispose di no.
Thuy gli ordinò di consegnarle il fucile e di correre a nascondersi, il ragazzo reagì all'ordine imperioso e tranquillamente ob­biettò che se lo avesse fatto sarebbero stati colpiti tutti e due. Aveva senso.
Sentirono un altro sparo, ma Thuy non riuscì a capire dove era diretto.
“Disgraziato, ha dato il colpo di grazia al ferito.” Disse lui, appoggiando il fucile alla spalla con noncuranza, come se nulla fos­ se successo. Si girò e si incamminò verso gli altri.
“L' altro... è andato via.” Disse Thuy. Prima imparava come ragionava il nemico più probabilità aveva di sopravvivere a quella terra.
Si accodò al ragazzo e disse: “Ottima azione, ma sei ancora troppo piccolo per queste cose.”
Il ragazzo rise, cercando di dare alla risata un tono virile e riferendosi alla propria corporatura già imponente nonostante avesse solo tredici anni disse: “Veramente avevo paura di essere un bersaglio troppo agevole, grosso come sono!”
“Parlo della tua età, so che hai 13 anni.” Disse lei.
Lui si fermò, la guardò negli occhi e la sfidò: “Mettimi alla prova, dai!”
Lei rise: “Sei troppo piccolo anche per queste cose, e poi sono una donna sposata.” Il ragazzino, come esige l'etichetta israeliana aggiunse una seconda battuta. Tre sono molestia, una sola è offensiva nei confronti della donna, disse con aria sconsolata: “Bè, hai detto prima che son troppo piccolo e poi che sei sposata, quindi ci sono delle probabilità...” Sorrise.
L'inconsueto aspetto di Thuy attirava troppo l'attenzione perché potesse essere lusingata dalle battute di un ragazzino, e poi amava suo marito, secondo la logica vietnamita: si erano sposati e pertanto lo amava e non lo avrebbe mai tradito.
I contadini israeliani cercando di superare lo spavento deposero le armi (tenendole sempre a portata di mano) si rimisero al la­ voro, fra poco sarebbero arrivati i soldati, ad ispezionare la zona da cui i palestinesi avevano sparato, ma l'esperienza aveva in­segnato ai contadini che per quel giorno non ci sarebbero stati altri problemi.
Anche il ragazzo prese in mano una zappa.
Thuy gli chiese: “Ma stavi facendo qualcosa?” In Vietnam le avevano insegnato che fra i bianchi i bambini non lavorano fino ai venti o persino i trent'anni. Lui annuì: “Logico” Si rimisero al lavoro, ma dopo pochi minuti il ragazzo era molto pallido, suda­ va copiosamente, e perdeva saliva dalla bocca aperta, si lasciò cadere in ginocchio, tenendosi la pancia.
Ora il suo volto era una maschera di dolore, gli occhi gli lacrimavano, i compaesani se ne accorsero, uno di loro gli chiese se fosse stato colpito da una fucilata.
Thuy intervenne e disse: “è tutto a posto, è il furore che gli è entrato nel sangue.”
Andò verso di lui.
Il giovane ebreo percepì la presenza di Thuy, si sentì un po meglio, lei si inginocchio, e disse: “è solo una scarica di adrenalina, respira profondamente.”
Uno degli ebrei disse a Thuy: Sembra che ti intendi di queste cose, ti spiacerebbe portarlo al “dopolavoro” e stare un po' con lui? Qua ci arrangiamo noi. Thuy annuì, e chiese al ragazzo se riuscisse a camminare.
Lui provò ad alzarsi in piedi, tremava molto.
“Dai, appoggiati a me” disse Thuy. E si incamminarono verso il dopolavoro.
“Che figura di merda, son quasi paralizzato dal terrore” disse lui. Thuy escogitò una risposta adeguata.
“Non pensarci, sei stato molto coraggioso.” La vietnamita si astenne dal fargli notare che la sua azione era stata superflua. Anzi, decise di dire una piccola bugia: “Se la battaglia fosse durata più a lungo ci sarebbero potuti essere degli altri feriti, forse persi­ no dei morti. Può darsi che tu abbia salvato delle vite.”
“Io miravo ai piedi” disse lui. “Quell'altro lo ha ammazzato per non lasciare che lo interrogassero.”
Erano quasi arrivati Thuy disse: “Non pensarci, o lui o qualcuno di noi, e poi non sapevi che il suo compare gli avrebbe sparato in testa”
Gli chiese il nome, il ragazzo era Yigal, destinato a diventare il terrificante guerriero noto come “Il Konvitato”.
Thuy prese dal suo tascapane un telo di polietilene e lo stese su una poltrona, e aiutò Yigal a sedersi.
Yigal pensò che Thuy avesse steso il telo perché lui era sporco di terra, non si era reso conto di essersela fatta addosso, né Thuy glie lo fece notare.
Invece andò dietro il banco, Yigal le disse che non era in vena di bere del the, e aveva già capito che Thuy non intendeva di cer­ to preparargli del caffè, nello stato in cui lui si trovava.
Thuy, cercava qualcosa che stava in basso, quindi era nascosta dal bancone e Yigal non aveva idea di cosa lei stesse cercando.
Lei disse: “Probabilmente una bevanda calda ti ucciderebbe, adesso.”
Tornò da lui con una bottiglia di rum e un paio di bottiglie di coca-cola, infilate in due bicchieri.
Yigal non disse niente, neanche quando Thuy gli palpò il braccio e versò una certa quantità di rum nel bicchiere, per poi allun­ garlo con la coca-cola.
“Si chiama “Cuba libre”, si dice che Fidel Castro non beva altro” disse porgendogli il bicchiere.
Lui prese in mano il bicchiere, e vergognandosi della propria inesperienza le chiese se doveva seccarlo in un fiato o sorseggiar­ lo, lei rispose che doveva fare come gli sembrava meglio, mentre versava coca cola liscia nel proprio bicchiere. Yigal le chiese perché non mettesse il rhum nella propria bevanda.
Seguendo la filosofia per cui due medicine sono meglio di una medicina, Thuy sorrise e disse: “Non vorrei soccombere al fasci­ no dei tuoi occhi verdi.”
In effetti era chiaro che l'acerbo Yigal sarebbe diventato un bel ragazzo e poi un bell'uomo. Ma la cosa non la avrebbe mai ri­ guardata.
Prese una sedia e si sedette di fronte a lui, e gli chiese: “Ho sentito che tuo padre sta male, come sta?”
Yigal guardò il proprio bicchiere: “è in coma da sette anni, i palestinesi lo hanno torturato per giorni.” ingollò un sorso e prose­guì: “qualcuno è riuscito a recuperarlo, era in fin di vita e incosciente, lo hanno medicato, ma non è riuscito a svegliarsi.”
Thuy inclinò la testa e chiese: “Riuscito? Ho capito bene?”
Yigal sospirò: “Si, ho detto la parola “riuscito”” la tradusse in inglese, Thuy annuì.
Restò in silenzio qualche secondo, e disse: “Vedi, mi sono convertita all'ebraismo per il matrimonio” si fermò, Yigal attese qualche secondo, poi disse: “Non è certo un mistero, la cosa ti da problemi? Ti assicuro che qui tutti ti vogliono bene.”
Thuy si spiegò: “Lo so, non è questo che volevo dire, è che sto cercando di capire cosa significa la frase, sembra che svegliarsi da un coma profondo lo vedi come un atto di volontà, e allora mi rendo conto che non conosco bene la vostra cultura.”
Yigal rispose: “Non so se ha una volontà e se avendola potrebbe manifestarla, ma qui preferiamo pensare che chi è in coma ce la ha e che ha motivi ultraterreni per non manifestarla decidendo di svegliarsi”
Thuy analizzò la nozione, e restituì: “Non è la via più dura”
Yigal la informò sul fatto che suo padre mostrava un' attività cerebrale molto intensa.
“I dottori dicono che il suo corpo è guarito”
Thuy chiese in che misura. Yigal, ora più tranquillo le disse: “Gli mancano dei pezzi, han dovuto amputargli metà di
una mano” Mostrò la propria mano e con l'altra la segnò ad indicare che alla mano sinistra di suo padre ora mancavano anulare e mignolo “gli hanno rifatto i timpani, e dicono che registrano i suoni, anche se è privo di un orecchio, dubitano che potrà torna­ re a camminare, se si risvegliasse, ed ha varie cicatrici sul corpo”
Thuy lo interruppe: “Da come le descrivi non sono ferite letali, se vengono curate”
“Appunto” disse Yigal “Respira da solo, e i medici dicono che il suo corpo funziona normalmente, e il suo cervello non ha dan­ ni fisici, anzi, mostra un' attività cerebrale molto intensa.”
Thuy si chiese cosa mai stesse sognando quell'uomo, e si sorprese a domandarsi perché AVESSE DECISO di non svegliarsi.
Non aveva capito subito le parole di Yigal, ma aveva assimilato il pensiero per cui svegliarsi o non svegliarsi era una decisione del malato.
Yigal, finito il suo cuba libre appoggiò le mani ai braccioli della poltrona e sentenziò:
“Mi sento bene.”
“Decido io quando ti sentirai bene” Thuy lo fulminò, il cambio di tono costrinse Yigal a rilassarsi nella poltrona, Thuy gli pre­parò un altro cuba libre, mettendoci molto meno Rhum, questa volta.
“La prossima volta che vai a trovarlo mi porti con te?” gli chiese.
Yigal rispose: “Volentieri, ma perché ti interessa? Non lo conosci, e non si muove affatto, devono massaggiargli i muscoli per­ché altrimenti si atrofizzerebbero.”
Thuy guardò fuori dalla finestra, e disse: “Vorrei capire, vorrei vedere come è fatto un uomo che decide di non svegliarsi, capire perché.”
Yigal fu sorpreso da come il punto di vista della vietnamita fosse cambiato in quella breve conversazione.
Thuy disse: “tu vorresti rimetterti subito al lavoro, nei campi. Sbagli a desiderare di rimetterti in marcia mentre non stai ancora bene. Perché vuoi rimetterti subito al lavoro?”
Yigal rispose: “Questo è ovvio, c'è bisogno di tutto l'aiuto disponibile.”
Thuy annuì ad occhi chiusi, li riaprì, e sporgendosi verso Yigal gli disse: “Ma se ti mettessi al lavoro turbato, e non riuscissi a vincere il tuo turbamento, saresti più efficiente che stando qui solo oggi, e i giorni successivi saresti meno efficiente del solito, quindi ci sarebbe meno aiuto disponibile.”
Yigal aveva ormai vinto il terrore, ma alle parole della giovane donna il suo corpo si blocco, mentre la sua mente rifletteva sulle parole e sulla loro saggezza.
“Dici che è questo quello che pensa?” chiese, in una strana immobilità.
Thuy disse: “Non lo so, io stavo parlando di te, non di lui. Se adesso tornassimo nei campi ci rimanderebbero qui a riposare an­ cora un po'” fece una lunga pausa e chiese: ”sbaglio?”
Yigal scosse semplicemente la testa, per dirle che in effetti non si sbagliava. Desiderava mostrare ai suoi fratelli che era forte, affidabile, ma se doveva pensare al lavoro in sé, se voleva essere saggio oltre che coraggioso, doveva ascoltarla.
Dopo circa mezz'ora lo invitò a farsi una doccia e cambiarsi i vestiti, non c'era modo di farlo senza fargli notare che si era pi­ sciato nei pantaloni, ma riuscì a rassicurarlo sul fatto che è del tutto normale quando ci si trova in una situazione come quella in cui si era messo. Yigal si rammaricò del fatto che nei kibbutz non ci fossero più le docce miste da anni.
Thuy lo derise: “Nelle docce miste non impari niente, ragazzino.”
Yigal le fece sapere: “Nella tradizione ebraica si diventa maggiorenni a tredici anni”
Thuy ci pensò su, in effetti nel kibbutz i ragazzini cominciavano molto presto a rendersi utili nei campi, stabilivano autonoma­ mente la propria dieta alla mensa, erano piuttosto autonomi.
Cambiati i vestiti, l'alcool fece effetto, nel suo giovane corpo e Yigal lamentò un abbiocco funesto, non aveva alcuna esperienza di intossicazione da alcool, era troppo intorpidito per preoccuparsi, ma collegò quelle sensazioni alla paura dello scontro. Thuy lo accompagnò al suo dormitorio. Yigal si stendette e si addormentò subito, nonostante fosse solo pomeriggio inoltrato. Thuy tornò ai campi.
Mentre si avvicinava alla propria zona studiò le operazioni dei colleghi, per inserirsi nel meccanismo nel modo più efficiente possibile.
Notò una pattuglia di soldati che presidiava il limite esterno del campo, non era il caso di disturbarli.
Andò pertanto sull'autocarro dell'equipaggiamento, a prendere un sacchetto di valvole per gli impianti di irrigazione, che sareb­ bero serviti ad una donna che stava tagliando e allineando dei tubi di gomma.
La fermarono, e le chiesero come stesse Yigal, lei li rassicurò sul fatto che si era addormentato intorpidito dall'alcool, e che avrebbe recuperato lo shock anche senza ulteriori attenzioni.
Colpita da un' ispirazione Thuy chiese a loro se stessero bene, anche loro avevano combattuto per le proprie vite, anche se non con la spregiudicatezza di Yigal e lei stessa. (Lei si era esposta per salvare la vita a Yigal, se fossero stati tutti al riparo avrebbe atteso insieme a loro l'intervento dell'esercito)
Espresse il desiderio di rimettersi al lavoro, visto che lei stava bene. Probabilmente era la persona che stava meglio, fra i presen­ ti.
“Per l'amor di “J.B.” ” Disse uno degli ebrei, rispettando la consuetudine di non nominare mai il nome del loro dio. “Rilassati per oggi, ci farebbe star male vedere che ti rimetti a lavorare” Thuy accettò la richiesta come ragionevole, si limitò a portare le valvole dove andavano installate, e si sedette nella cabina di un autocarro immersa in chissà quali pensieri.
Qualche giorno dopo lei, Yigal e la madre di Yigal andarono all'ospedale in cui era ricoverato il padre di Yigal.
La madre di Yigal, Danielle, era nata in Israele, da genitori tedeschi, mentre il padre era polacco.
Conosceva vagamente Thuy, la donna che il direttore della scuola elementare in una città a pochi chilometri dal kibbutz aveva sposato in Vietnam, Thuy lavorava in kibbutz e dormiva a casa con il marito tre o quattro giorni alla settimana, a seconda se fi­ niva di lavorare prima o dopo di poter prendere l'ultimo autobus.
La guardò, la donna annamita non arrivava ai quaranta chili di peso ed era carina come una bambola di porcellana, dimostrava molto meno dei suoi ventitré anni. Le avevano raccontato di come avesse affrontato dei terroristi palestinesi correndo loro in­ contro disarmata, non riuscì proprio ad associare un' azione tanto aggressiva a quella tranquilla e gentile bambolina, provò una grande ammirazione per il coraggio della piccola donna.
Danielle, chiese a Thuy se avesse rimproverato a sufficienza Yigal per la sua bravata col fucile.
Thuy ci pensò un attimo, immaginò che la yiddish moma, al contrario di come si sarebbe comportata una madre annamita aves­ se rimproverato il figlio ogni minuto che lo aveva avuto per le mani.
Tanto più considerando il fatto che, come il marito di Thuy, quel giorno non si trovava al kibbutz, ed era stata informata dell'ac­ caduto solo quando i contadini avevano interrotto il proprio lavoro.
Optò per: “Daniela, Yigal ormai non è più un bambino.”
Daniela glie lo concesse, ma disse: “Mi preoccupa, un soldato deve anche pensare a sopravvivere”
Thuy ci pensò su e disse: “è giusto.”
All'ospedale i medici ripeterono quello che ripetevano da anni, Aaron, il padre di Yigal era in coma profondo, la sua mente mo­ strava di sentire i suoni o riconoscere le luci, ma non reagiva in alcun modo, il corpo poteva tranquillamente funzionare autonomamente, le ferite erano guarite, nel senso che non ne pregiudicavano la sopravvivenza.
Danielle e Yigal invitarono Aaron a svegliarsi, a tornare alla vita, Thuy, appoggiando le mani al bordo del letto, avvicinò le lab­ bra al buco dove prima c'era l'orecchio di Aaron, e in vietnamita gli disse: “Tuo figlio ha combattuto come un uomo coraggioso, ha mostrato compassione per il nemico e preoccupazione per gli alleati, si è spaventato e si è ripreso bene... è intelligente ed un bravo lavoratore, ed è anche un bel ragazzo, puoi esserne fiero.” fece una pausa e concluse: “Volevo dirtelo.”
Poi gli chiese: “Ti sveglierai in tempo per salvare la mia anima?” nel dire questo appoggiò il pugno chiuso sullo sterno.
Attese qualche secondo, come previsto l'uomo in coma non mostrò nessuna reazione.
Come avevano detto i medici, il suono gli arrivava al cervello dai timpani riparati chirurgicamente, ma la sua mente non elabo­ rava lo stimolo in alcun modo.
Si allontanò e tornò dai familiari di Aaron.

Danielle, pensando che avesse recitato una preghiera buddista o taoista la ringraziò.  

Nono scontro: Aaron Vs. Nocturne. Primo round.

Krav Magà. Combattimento ravvicinato.
Il soldato israeliano è una macchina votata alla propria sopravvivenza. Contro una forza soverchiante reagisce meglio di chiun­que altro, e non si perde d'animo fino all'ultimo respiro.
In teoria.
Aaron percepiva il buio con tutti e cinque i sensi, e nel buio risate e motteggi, tedeschi, arabi, russi, francesi, spagnoli, lo minac­ciavano in tutte le lingue che riusciva a riconoscere, nessuno dei suoi nemici sbraitava in polacco. Per questo Aaron non si sentiva solo, cercò di individuare la presenza degli aggressori. Il fatto che non riuscisse a vederli era reciproco?
Come era finito lì? Un uomo pacifico, una vita violenta, una morte...
“Ah, ecco” pensò candidamente “Sono morto, ma prima di morire ho ucciso”
Pensò che la sua difesa era inadeguata, e passò ad un' altra danza di difesa, cercava di misurare gli avversari dalle loro voci.
“Dunque questo è l'inferno e quelli devono essere demoni o qualcosa del genere”
Aaron era un soldato israeliano, della vecchia guardia. Avrebbe venduto cara la... bè, se era ancora in grado di pensare allora era ancora in grado di sperare, e finché è in grado di sperare, il soldato israeliano non può essere sconfitto. Ucciso forse, sconfit­ to no.
Cambiò di nuovo postura, e ricominciò a muoversi per raccogliere ogni possibile indizio sulla posizione e sulle intenzioni dei propri avversari.
Il primo lo aggredì, Aaron girò su sé stesso, con l'intenzione di capire che forma avesse, per studiare le sue articolazioni e i pun­ ti deboli nei corpi di quella razza, decise che aveva allontanato il polso del nemico con un ceffone, valutò la possibile distanza dal gomito, e colpì dove la probabilità di colpire qualcosa che funziona come lo sterno arrivava ad uno su mille, non colpì nien­ te, ma guidato da un' intuizione scalciò dietro di sé, e toccò qualcosa.
Si compiacque del fatto che il proprio fantasma o quello che era indossasse ancora i fedeli stivali, assorbì le informazioni di quel fugace contatto e stabilì che dovevano essere una sorta di rettili bipedi.
Sentì uno spostamento d'aria, e scattò di fianco, per evitare... Non sapeva quanto erano forti quelle creature, e non sapeva quan­ te ce ne fossero, dunque si dispose ad evitare ogni colpo.
Erano dappertutto intorno a lui.
Questa era una gomitata, ne era sicuro, un demone russo? Aaron pur stupito dal fatto che i demoni sembrassero avere nazionali­tà dal mondo dei vivi e stili di combattimento tipici, reagì in fretta, tese l'udito e si rese conto che la gomitata era destra, quei mostri avevano due braccia e due gambe, il collo molto più lungo che quello di un essere umano. Aaron si spostò e colpì la bestia dove si attaccavano le clavicole, nella sua disumana fisionomia.
Dovette schivarne un' altro, ma quello che sentì lo raggelò, il demone colpito era caduto sopraffatto dal dolore, e si stava lamen­ tando come un bambino piccolo.
Aaron si concentrò sulle rimostranze del demone che aveva abbattuto. “Non è giusto, tu non puoi vedere, al buio.”
Aaron non sentiva il proprio corpo, ma poteva muoverlo molto bene, sentì le correnti d'aria intorno a lui farsi più ordinate, e con raccapriccio si rese conto che alcuni demoni non si dedicavano più a lui per... divorare il compagno caduto.
Ora Aaron era davvero spaventato, il demone continuava a lamentarsi come un bambino... e anche i suoi aggressori si esprime­ vano come bambini, mentre continuava a sentire le invettive degli altri. Aprì la guardia, con la mano fermò un calcio, e restituì un pugno che ruppe il ginocchio dell'avversario, poi lo spinse in modo da forzarlo ad appoggiasi sulla gamba appena rotta, que­sto lo avrebbe messo fuori gioco, quindi fece scattare la testa all'indietro, distruggendo la faccia di un altro avversario.
Gli altri invece di attaccarlo mangiavano quelli che lui stendeva, con suoni piuttosto sconvenienti.
Aaron fece un balzo dove sentiva che poteva disporsi meglio e chiuse la guardia: quanti ce ne erano?
La tattica di dare loro da mangiare i propri compagni era terribilmente sbagliata da un punto di vista morale, ma da un punto di vista pratico sembrava funzionare.
Lo disturbava molto il fatto che sembrassero avere l'intelletto di bambini piccoli, ma erano evidentemente disumani e più pesan­ ti di lui, e inoltre lo avevano attaccato senza ragioni a lui note.
“Ti stancherai!” “Non potrai reagire per sempre!” Aaron colse frasi del genere fra le ingiurie e le contumelie, e sapeva che era vero.
Ciononostante, il soldato israeliano è una macchina votata alla propria sopravvivenza. Contro una forza soverchiante reagisce meglio di chiunque altro, e non si perde d'animo fino all'ultimo respiro.
Aaron si rassegnò ad affrontare quella lotta infinita, era un soldato israeliano, sorrise e pensò ad una battuta del suo sergente, quando era una recluta:
“Ricordatevi: voi siete soldati dell'esercito israeliano. In nessun'altra nazione un soldato può dire lo stesso”
Aaron dentro di sé rise di quella battuta, si chiese se anche i sergenti delle altre nazioni la dicono, cambiando ovviamente la bandiera menzionata, e si dispose a riprendere il combattimento.
Pensò che sarebbe stato meglio muoversi in quella che gli sembrava una linea retta, per
allontanarsi dai banchetti che i suoi pugni, calci, ginocchiate, testate, offrivano ai suoi
nemici.
Qualche colpo non riusciva a schivarlo del tutto, Sentiva le ferite, sperava che non si infettassero, la stanchezza e la tensione si accumulavano, quando aveva provocato la morte di un migliaio di mostri si accorse con preoccupazione che esprimevano dub­bi, sul fatto che accanirsi sui compagni indeboliti li distraeva dall'aggredire Aaron stesso, ma d'altra parte anche gli sembrava che gli occhi si stessero adattando a vedere in quell'ambiente.
Continuò a distruggere con micidiale efficienza tutto quello che gli veniva vicino, compiaciuto del fatto che riusciva ad evitare ferite che avrebbero pregiudicato la sua mobilità, perché il soldato israeliano è una macchina votata alla propria sopravvivenza. Contro una forza soverchiante reagisce meglio di chiunque altro, e non si perde d'animo fino all'ultimo respiro.
Arrivato ad aver provocato la morte di qualche decina di migliaia di mostri, unico possibile riscontro del tempo, si sentiva un po' stanco, e nella monotonia di quello strano ecosistema si chiese se i suoi nemici non fossero in realtà i dannati e se lui non fosse in realtà il diavolo preposto alla loro punizione.
Questo pensiero invece di motivarlo gli faceva venire enormi sensi di colpa.
Era un soldato israeliano.
Era un diavolo il cui compito è castigare i dannati all'inferno?
Era quello che i mostri gli stavano urlando contro?
Scacciò questo pensiero, sarebbe rimasto ucciso senza aver provato tutto per sopravvivere, se ci avesse dato peso.

Avrebbe logorato la speranza, e la speranza è la parte di equipaggiamento senza il quale un soldato israeliano non può assoluta­mente dirsi un soldato israeliano. 

giovedì 4 luglio 2013

Ottavo scontro: Nocturne Vs. Leyla Hayat. Primo Round.

Leyla sentiva sulle labbra il sapore del proprio respiro, contro il passamontagna.
Lei e i suoi compagni avevano l'ordine di lanciare dei razzi dal tetto di una scuola elementare.
Se gli ebrei avessero cercato di fermarli, i giornalisti avrebbero pensato per bene a infiorettare la cosa come un bombardamento gratuito sulla scuola.
Gli insegnanti presenti incoraggiavano i bambini alla calma.
Un bambino asiatico?
Leyla si chiese cosa ci faceva lì un bambino dai tratti così marcatamente asiatici, l'orologio dietro ai bambini segnava le quindi­ ci e ventisette minuti. Assurdo, a quell'ora aveva lanciato il razzo, e perché era in una classe? Non erano entrati in una classe, quel giorno...
Il bambino asiatico la guardò e disse: “Vergogna!” il braccio di Leyla si mosse da solo, sparò in mezzo agli occhi al bambino, fra l'orrore dei compagni di classe e dell'insegnante... che era... Ehud Banai, il cantante?? Impossibile, ma gli ringhiò contro: “Quel bambino è stato ucciso dall'occupazione sionista, è chiaro?” Era tutto sbagliato, ora si ricordava, il bambino era morto ucciso dal razzo, non lo aveva fucilato lei. Aveva visto la foto, ma non lo aveva fucilato, era morto ucciso dal razzo, non perché lei lo avesse fucilato. “Non è la stessa cosa!” sbraitò al maestro, che ora era suo padre. Goccioline di saliva vennero proiettate dalla sua bocca, poiché non aveva più il passamontagna.
Si svegliò piuttosto inquieta, e si mise a piangere, e nelle lacrime disse: “è la stessa cosa, lo so.” Cercò di rimettersi a dormire, e sorprendentemente il sonno arrivò subito, stava pensando a quanto era stato facile addormentarsi, quando sentì il vicino grattare contro il muro. Lo faceva sempre, vai a sapere perché.
Leyla si svegliò. Aveva l'abitudine di dormire in un Mausoleo, in cui ora non sapeva come entrava ogni sera e usciva ogni mat­ tina.
Dormiva in braccio alla statua di un antico Re, e vide a qualche metro di distanza un bambino che le volgeva le spalle.
Trovò l'intrusione alquanto bizzarra, ma pensò che se il bambino era lì probabilmente aveva bisogno di aiuto.
Si alzò dal suo bizzarro giaciglio e andò verso il bambino, che ancora le volgeva le spalle, e gli chiese: “hai bisogno di aiuto? Sono forte, sai?”
“In effetti puoi essermi molto d'aiuto.” Rispose il bambino, doveva avere cinque o sei anni, ma la serietà della sua voce era quella di un adulto. Leyla non ci badò, e gli chiese: “Come ti chiami?”
Il bambino rispose: “Nocturne”
“Che coincidenza... è la traduzione in greco del mio, di nome” Disse Leyla. Era ragionevole pensare che il bambino fosse in­ quieto, anche se non ne dava segno, e Leyla si preoccupava di metterlo a suo agio, anche se non sapeva come.
“Lo so, Leyla Hayat” Disse il bambino.
Leyla si spaventò e chiese: “Come sai il mio nome?”
Il bambino, riferendosi alla Kefiah, che Leyla pensava di non aver mai indossato da quando era in Europa, disse: “La tua sciar­ pa. La lingua che parli è l'arabo dei territori.”
“Oh, profeta, che bambino intelligente, però a quest'ora devi tornare a casa. Ti accompagno io, non devi aver paura di niente” Disse Leyla nel tono più comprensivo che poteva assumere.
“Non posso tornare a casa” Disse il bambino, e lentamente si voltò.
Leyla si accorse con orrore che la sua carne era trasparente, e si vedeva lo scheletro, sotto. Una scheggia di metallo gli aveva aperto la pancia, e gli intestini penzolavano dalla ferita, inoltre era privo di occhi.
“Sono morto” disse semplicemente, come se avesse detto: ho 5 anni.
Finalmente Leyla si svegliò sul serio. Guardò l'ora, mancavano pochi minuti al suono della sveglia, si alzò, ripensando al sogno, a dove aveva già visto l'espressione graziosa e solenne del bambino, perché nella foto funebre, il bambino ucciso anni prima da un razzo lanciato dalla sua squadra, aveva un aspetto e un' espressione completamente diversi, per quanto anche lui venisse da... Thailandia? Filippine? Leyla non lo ricordava, si promise di chiederlo al Konvitato, che sapeva sempre tutto, di queste cose.
Andò in bagno e si guardò distrattamente allo specchio, realizzando all'istante dove avesse già visto l'espressione del bambino: l'aveva lei stessa quando aveva schiaffeggiato il Konvitato, e quella che aveva in quel momento cominciava ad andarci vicino.
“Ho tirato un razzo e lui era sotto, in un certo senso è davvero come se lo avessi fucilato.”
Aveva una mezza idea di chiamarsi malata.

Non lo fece.  

Settimo scontro: Il Konvitato Vs. Leyla Hayat, primo round.

Leyla era sola nel locale, il bar era vuoto.
Il direttore si era inventato una scusa per allontanarsi, e aveva lasciato Leyla a contemplare il cielo.
Un aereo passò, lasciando una scia di condensa, una voce nel locale ringhiò: “Maledetti, vogliono avvelenarci tutti!”
Leyla ricordò, quando era una bambina gli ISM le avevano spiegato che le scie di condensa degli aeroplani erano in realtà strani farmaci che le avrebbero impedito la crescita.
Fosse stato vero... rimase qualche minuto immersa nei propri pensieri: stabilì che se Vaironi avesse avuto bisogno di lei la avrebbe richiamata.
Amelio attese l'attenzione di Leyla.
Dopo un po' si voltò verso un Amelio Vaironi piuttosto adirato e disse, tanto per chiarire che “palestinese” non è sinonimo di ignorante: “è solo vapore.”
In quel momento entrò Il Konvitato, che visto Vaironi fece scattare il braccio e tuonò “Sieg Heil! MabVuk! Hezbollah faVà fuoVi tutti quei poVci ebVei.” Vaironi non rispose al saluto, ma rispose: “Bravo, sono sollevato nel vedere che c'è qualcuno che capisce come stanno le cose”
“Tutti nei foVni quegli assassini di bambini!”
Leyla non capiva l'umorismo del Konvitato, ma osservando la sua espressione notò con una scarica di orrore che per recitare la parte del francese antisemita il Konvitato aveva assunto l'espressione costante di Leyla stessa.
Vide sé stessa nella caricatura di Kaplinskji e guardò Vaironi, che aveva la stessa espressione.
Realizzò subito l'assurdità della scena.
Vaironi, benché molto più piccolo del Konvitato era comunque alto quasi come Leyla, e piuttosto paffuto, e in passato aveva gi­rato dei film propagandistici in cui recitava la parte del Konvitato, che opprimeva i poveri palestinesi... come lei.
Il Konvitato era completamente diverso dal personaggio interpretato da Vaironi, ma ora...
Era il Konvitato che stava recitando la parte di Amelio Vaironi.
E Vaironi abboccava. Le scappò di dire in arabo: “Come hanno sempre fatto.”
Il Konvitato interruppe i suoi scherzi con Vaironi e le chiese, nella stessa lingua: “hai detto qualcosa?”
Leyla si ricompose, e chiese: “Come è andata?” Poi chiuso il pugno fece il gesto di infilarsi di lato un oggetto delle dimensioni di un cetriolo in bocca, deformando contemporaneamente la guancia con la lingua, come si sarebbe deformata se l'oggetto im­ maginario fosse esistito. “Buono?” Incrociò le braccia e si appoggiò alla lavastoviglie, si chiedeva come avrebbe reagito il Kon­vitato... o cosa sarebbe passato per la testa di Vaironi.
Il Konvitato si diede una pacca sugli addominali, duri come roccia, e sorridendo rispose:
“salato al punto giusto, anzi, se permetti ho un certo bruciore al culo” e indicò la toilette, Leyla la indicò col mento e disse: “Se mi dai un minuto ci metto un ananasso.” “Dopo il colloquio col poliziotto non me ne accorgerei neanche, lascia perdere” disse il Konvitato, finì la frase mentre apriva la porta.
Solo allora Leyla notò che Amelio aveva un sacchetto di dolci con sé, che appoggiò sul banco sorridendo. Leyla attese che di­ cesse qualcosa, Dopo un buon minuto Amelio disse:
“Ho pensato che li avresti graditi.”
Leyla senza muoversi chiese cosa ci fosse nel sacchetto.
Elegantemente Vaironi prese una salvietta ed estrasse un Krapfen dal sacchetto, e lo porse a Leyla, che lo prese in mano, stando attenta a non far cadere lo zucchero, in quella il Konvitato tornò dalla toilette.
Leyla, tenendo il Krapfen in mano davanti a sé disse, di nuovo in Arabo: “C'è della crema
dentro.”
“Probabile, crema o marmellata, immagino a Gaza non esistano dolci simili.”
Leyla sembrava uno scienziato che esaminasse un bolide con delle incisioni sopra, ma per guardare sotto al krapfen fece un mo­ vimento che fece scorrere al Konvitato un brivido lungo la schiena: tenendo il krapfen immobile rispetto all'ambiente si abbassò sulle ginocchia fino a trovarsi a guardarlo da sotto, Il Konvitato osservò il movimento, poi si avvicinò al banco e si chinò fino ad avere la testa alla stessa altezza di quella di Leyla, le posizioni delle teste erano simmetriche, Vaironi si chiese di cosa stesse­ ro parlando, visto che a parte “salamalekium” o “mabrouk” non sapeva una sola parola di arabo.
Il Konvitato osservò il pulsare del cuore di Leyla, chiaramente percettibile dalle vene dell'avambraccio, ma il krapfen non si muoveva in alcun modo.
Chiese a Leyla: “Per caso hai mai misurato il tuo tackle?”
Leyla rispose: “sei e quaranta”
Il Konvitato disse: “Io cinque e ottanta”
Leyla commentò: “non lo avrei mai detto... Tu sai perché la crema non viene fuori?”
Il Konvitato indicò il krapfen e disse: “Forse è perché è impastato con strutto”
Senza muoversi Leyla chiese al Konvitato: “Oh, profeta! E adesso che dovrei fare?”
Il Konvitato rispose: “Io adoro i krapfen”
Leyla disse: “Adesso che mi hai detto che ci potrebbe essere dello strutto dentro non potrei addentarlo neanche se ne andasse della mia vita”
Il Konvitato disse: “digli che sei diabetica.”
Vaironi capì la parola greca, e si profuse in scuse, Leyla lo rassicurò dicendogli che lui non poteva saperlo.
Il Konvitato riprese lo scherzo con Vaironi e sbottò: “PoVci ebVei, hanno la medicina peV il diabete e non la danno ai bambini palestinesi, peV questo questa Vagazza deve soffViVe.”
Vaironi gli dava corda, ma Leyla si sentiva strana, tutto d'un tratto. come se avesse l'influenza.
Osservò il Konvitato sorridere, e una visione si sovrappose alla realtà: Il Konvitato era a Gaza, con la divisa dell'IDF, un proiet­tile gli aveva trapassato il polmone sinistro, sanguinava dalla bocca. Un altro proiettile nella visione gli entrò in gola, quella ca­ ricatura del Konvitato sorrideva divertita, mentre il sangue colava copioso.
Leyla vide un terzo proiettile fargli saltare il cranio. Era inorridita, la visione aveva sostituito del tutto i dati raccolti dai suoi oc­chi.
La visione cominciò a diventare trasparente, si sentiva fatta di formiche inferocite, e dalla visione affiorò il Konvitato, che la stava riprendendo con una fotocamera digitale.
Leyla si sentì incredibilmente nauseata dalla visione appena dileguatasi. Era abituata all'umorismo del Konvitato, ora si sentiva come se il sangue fosse gelato, il Konvitato stava riponendo la fotocamera, e Leyla improvvisamente gli tirò un micidiale ceffo­ne, e disse in ebraico: “Se ti dimentichi cos'è la paura morirai!”
Il Konvitato era giustificabilmente scosso, e un ceffone di Leyla aveva effetto anche su di lui. Accarezzandosi la guancia dolen­te le chiese in inglese: “Stai poco bene?”
Leyla rispose in ebraico: “Quanto ho desiderato ucciderti, Yigal...” fece una breve pausa, poi con voce inumana aggiunse “LO SAI!”
Il Konvitato, massaggiandosi ancora la guancia dolorante disse, sorridendo: “Acqua passata, Leyla.”
Leyla sentì la tensione abbandonarla, e tornando in sé si stupì del proprio gesto di pochi secondi prima.
Il Konvitato, dimenticandosi di ostentare l'accento francese disse a Vaironi: “Senti, è meglio se torni un' altra volta”
Vaironi non se la sentiva di affrontare il Konvitato per fare impressione su Leyla, non sapeva cosa fare, ma per qualche motivo non gli piaceva l'idea di prendere ordini da quell'uomo.
Leyla stava per mettersi a piangere, e disse a Vaironi: “Ti prego: fai come dice lui” Vaironi stava per obbiettare, ma subito deci­ se di esaudire il desiderio di Leyla.
Leyla riusciva ancora a trattenere le lacrime, quando Vaironi fu uscito, disse al Konvitato: “Dammi solo un minuto” Preparò due caffè, mentre il liquido cadeva nelle due tazze prese dal frigorifero delle bibite un the alla pesca, quindi rovesciò i due caffè in un bicchiere più grande, e portò le due bevande ad un tavolo. I due si sedettero uno di fronte all'altro.
“Il mio cervello non funziona bene” sospirò Leyla.
Il Konvitato disse: “Per una donna araba quello che hai fatto è inconcepibile, ma fra le Europee la tua reazione è normalissima.”
“Normale?” Chiese Leyla con un filo di voce.
“L'umorismo israeliano è estremamente macabro, per la maggior parte degli europei. Vedi, a loro piace pensare che un soldato sia un animale di una specie diversa, e non un essere umano.” Spiegò il Konvitato.
“Cioè pensano che i soldati siano un' altra specie animale? Questo è assurdo, è ovvio che un soldato è un essere umano.” ob­ biettò Leyla.
“Hanno dei sensi di colpa, e difficilmente sopportano l'idea che un soldato sia una persona, quindi quando mi hai visto fare lo scemo con Amelio probabilmente ti sei sentita in colpa per i tuoi intenti omicidi, ed è dura da sopportare.”
“Leyla annuì: deve essere andata proprio così, è stato come se mi fossi addormentata e avessi sognato di ucciderti, ma non lo voglio, non fuori da Gaza, per lo meno.”
Il Konvitato la guardò perplesso, poi sorrise e disse: “Un po' di riguardo per gli abitanti di questa città non è reato”
Leyla scosse la testa: “Non è quello, non voglio ucciderti, ma nella striscia saremmo avversari, poi mi dispiacerebbe averlo fat­to, ma sarebbe una cosa che... avrei dovuto fare, mi reputi malvagia per questo?”
Il Konvitato sospirò, e disse: “La cosa è reciproca, so cosa intendi dire.”
“E io non volevo pensarci, ti ho odiato... per quello che dicevi a Vaironi, sentirti incitare un tuo nemico, per scherzo poi... è sta­ to orribile, infernale.” Leyla cercava di esprimere al meglio a parole sentimenti molto complessi.
Il Konvitato estrasse dalla tasca la fotocamera digitale, e ci armeggiò mentre Leyla continuava: “ho percepito i sentimenti di quell'idiota, pure, mi sento contaminata...”
Il Konvitato richiamò la sua attenzione, e disse: “Guarda qui che bella bambolina.” Accortosi che c'era qualcosa di inconsueto in Leyla aveva registrato l'evolversi della crisi di lei.
Leyla, nel visore dell'apparecchio vide sé stessa, la camera stava chiudendo sul suo volto, e vide i muscoli del viso distendersi, la propria espressione farsi neutra.
Esprimeva dagli occhi verde scuro una rabbia quale non aveva mai provato nella sua vita, ma il resto del volto e del collo erano quelli di una modella per costumi da bagno.
Il Konvitato fermò l'immagine. Leyla guardò rapita l'espressione che neanche sapeva di poter assumere.
Sentiva di avere la solita espressione incazzata, accarezzo il visore pensando che voleva mostrare al mondo la bellezza che ci vedeva dentro, poi guardò il Konvitato, e tornò a guardare il visore, serenamente disse: “Io e te abbiamo gli occhi dello stesso colore”
Il Konvitato le arruffò i capelli con una mano, e disse: “Se ti ci metti sei proprio una bella bambina”
Leyla sentì che i muscoli della faccia si stavano rilassando, non come nella foto, forse un decimo, ma pensava che quella nella foto era lei.
Restarono così qualche minuto, poi Leyla chiese: “Prima, perché ti sei informato sulla portata del mio tackle?”
Yigal le raccontò brevemente della bravata di Coccinella, avvenuta un paio di ore prima.
Leyla ascoltò senza interrompere.
Il Konvitato la indicò e disse: “Se ci fossi stata tu al mio posto lo avresti preso senz'altro, lo ho mancato per pochi centesimi di secondo.”
Leyla si accarezzo il mento guardando lontano dal Konvitato e pensosamente disse: “Coccinella, dici? Più probabile che mi avrebbe afferrato per il collo per costringere Dollinger a lasciarlo andare. Avrebbe fatto una scelta simile se si fosse reso conto che il tuo tackle avrebbe connesso, e uno al suo livello non avrebbe mai organizzato un simile scherzo senza essere certo di po­ ter gestire qualunque sviluppo.”
Il Konvitato strabuzzò gli occhi: “Non ci avevo pensato, quando gli son saltato addosso... quel finocchio è dunque invincibile?”
Fu il turno di Leyla di strabuzzare gli occhi: “Perché vorresti vincerlo? Credevo fosse tuo amico.”
Il Konvitato incrociò le braccia sul petto e spiegò: “Bè, è un po' come giocare a ping pong con un amico, anche se è tuo amico, uno così forte vorresti batterlo almeno una volta.”

Leyla scosse la testa e mormorò: “Non lo capisco, magari più avanti lo capirò” Tornò a guardare la propria foto, e aggiunse: “Lo spero” Poi chiese al Konvitato di stamparle il fotogramma in un internet cafè.  

Sesto scontro: Torsten Dollinger E Il Konvitato Vs. Coccinella. Dra­matic Battle.

L'anta dell'armadio si aprì, e ne uscì una persona.
Yigal ripensò al fatto che lo scaffale vicino all'armadio gli sembrava TROPPO carico.
Il ragazzo era bello come un modello di una pubblicità di profumi, alto, snello, bruno.
I suoi abiti avevano uno stile punk, ma anche una certa ricercatezza: Indossava dei pantaloni mimetici, i cui colori erano fucsia, lilla e bianco, e un top con una sola spallina, nero a pallini rossi.
I capelli, pur acconciati in una spazzola alta quattro dita, apparivano molto soffici.
Era truccato come si truccano le donne, i suoi occhi neri come il carbone erano evidenziati da un sapiente uso di eye-liner. ma stranamente non appariva effeminato...
Yigal pensò ai predoni persiani delle favole. Erano favole?
Il tutore dell'ordine e il super soldato erano semplicemente pietrificati, e il ragazzo parlò di nuovo: “Con le robe da agenti segre­ ti anche me la cavo, ma sapete...” I due che erano legittimati a stare in quella stanza blindata erano allibiti, la voce era identica a quando era nell'armadio.
“Son talmente finocchio che semplicemente non riesco a stare a sentire due ragazzoni muscolosi che si mettono a parlare di figa.”
Con naturalezza andò alla porta, e prese la maniglia.
“Ah” concluse: “Per farmi perdonare del disturbo...”
Dollinger in un istante puntò la propria arma contro lo sconosciuto, che annoiato replicò: “è scarica” e prese dalla tasca sulla co­ scia destra un oggetto grande come un libro.
Il Konvitato si preparò a scagliarglisi addosso, fiducioso nel fatto che solo Dollinger avrebbe potuto aprire la porta.
Lo sconosciuto lanciò l'oggetto con grazia, vecchio trucco. Il poliziotto e il guerriero seguitarono a tenere d'occhio lui ignoran­ do la scatoletta, che da come volteggiava era troppo leggera per essere un pericolo.
Si sentì un ronzio, la scatoletta era stata tirata sul comando di apertura della porta. Il Konvitato scattò con la rapidità di una ti­ gre. Disposto a farsi male nel placcaggio, era orizzontale ad un metro dal suolo, con la precauzione di offrire alla linea di tiro di Dollinger la suola dello stivale e non... parti che magari gli sarebbero servite la sera stessa, giusto nel caso quella della pistola scarica fosse un bluff e Dollinger fosse abile meno di un centesimo di quanto appariva. Dollinger non sparò, ma il misterioso punk era già fuori, la porta non era ancora completamente chiusa.
Per quanto il Konvitato fosse forte, non poteva di certo con il dorso di una mano contrastare il calcio con cui l'altro chiuse la porta e si mise a correre nello stesso tempo, si attaccò alla maniglia allo scopo di finire fuori dalla stanza per inerzia, ma il ron­ zio cessò.
Dollinger per riflesso aveva spostato la scatoletta dal pulsante.
Capito l'errore aveva tornato a premerlo, ma il Konvitato, che si era fermato con le mani contro il muro, gli fece cenno di lasciar perdere e rimessosi in piedi tornò direttamente da Dollinger.
“Questa è una città relativamente tranquilla, se ne andrà dal tetto, e capace che ha interrotto le registrazioni delle telecamere.” Le indicò per sottolineare la diabolica scaltrezza dell'intruso.” Inutile far casino chiedendo di provare a prenderlo nell'edificio”
Dollinger si scusò: “Non mi sono reso conto che quando ho tolto la scatola era già mezzo fuori.”
Yigal, comprensivo disse: “Già, col suo teatrino ha comprato mezzo secondo a tutti e due. Ricordati di vedere come ha eluso le telecamere, non registrano ma continuano a mostrare la stanza con te dentro. Non è possibile che abbia steso qualcuno per en­ trare qui.”
Dollinger sconsolato confermò: “Dì pure che ci ha buggerati alla grande tutti e due, sapeva al decimo di secondo cosa avremmo fatto, sapeva che nessuno avrebbe notato che il contenuto della stanza differiva dalle immagini delle telecamere, un gran lavo­ ro.”
Yigal: “Hai ragione, le pecche dei nostri addestramenti sono che in certe situazioni le nostre reazioni possono essere previste con largo anticipo, ma vorrei sapere cosa voleva.”
“Uno così può fotterci quando vuole, sembrava un ninja.”
I due giganti erano scossi e imbarazzati. Non si vergognavano ad ammetterlo, ma si sentivano umiliati.
Sentirono bussare alla finestra, era il punk. Fece il gesto di rompere un sigillo e guardare in uno scrigno, poi fece loro un sorriso sincero, accattivante e infantile, fece il gesto di tirare una catenella e si accosciò girando su sé stesso, sparendo alla vista, per ul­ tima la mano, che agitava in segno di saluto.
“Andato” grugnì il Konvitato “E ci si beccherà quando vorrà lui.”
“Ma chi è?” Chiese Dollinger.
“Vediamo cosa c'è nella scatola” disse il Konvitato.
Aprirono la scatola e dentro c'era un biglietto, grande poco meno del coperchio della scatola, la carta era a buccia d'arancia, c'e­ ra scritta una frase in ebraico, sotto uno svolazzo, sotto ancora una frase in tedesco, e sotto ancora, scritta in corsivo, la parola “Coccinella” Il puntino della “I” era una stilizzazione dell'insetto, veramente carina, anche con i riflessi sulle parti nere, nono­ stante la semplicità.
“Santo cielo, quello!” sospirò il Konvitato.
Dollinger chiese: “Ne hai sentito parlare?”
Il Konvitato indicò la frase in tedesco e disse: “In ebraico c'è scritto: “Questi li ho fatti io con le mie manine d'oro.””
“In tedesco è lo stesso” Disse Dollinger, e cautamente sollevò il biglietto. Sotto c'erano 16 dolcetti turchi.
“Il Konvitato ne indicò uno e disse: guarda che roba, questo. Ha selezionato e spellato i pistacchi uno ad uno, ma come li avrà tagliati così fini?”
“Muoio dalla voglia di assaggiarne uno, ma se lo facessi sarei dannato a vita, puoi tenerli”
“Incorruttibile fino al cioccolatino, eh? Lo avevo capito” disse Yigal, anche per mitigare l'imbarazzo.
Il poliziotto osservò: “Non mi hai detto chi è quel tipo, ma sembra che tu ti sia tranquillizzato appena hai visto la firma.”
“è iraniano, contro gli Ayatollah, se lo pigliano lo appendono... il ché tecnicamente ne fa un amico.”
“Perché lo chiamano “Coccinella”?” chiese Dollinger.
“L'insetto che contrassegnava la “i”,non so in quale lingua. Lo chiamano così perché te lo trovi davanti, non sai come, non sai perché, e ad un certo punto non c'è più e ti lascia a chiederti cosa abbia fatto.”
“Meritatissimo, direi” fu la risposta.
Dollinger finalmente rimise la pistola nella fondina e disse: “Sai, sono un appassionato di pesca alla carpa. Mi viene da pensare a quando ero piccolo... quando abboccava un pesce pesante lo perdevo sempre perché ero troppo eccitato all'idea di tirarlo su e vantarmene con gli amici, poi ho corretto questa tendenza... e penso che oggi sia tornata fuori”
Il Konvitato rise: “Proprio quella, era come quando da bambino trattieni qualcosa in un sogno e quando ti svegli non c'è più... in fondo credo di aver intuito chi fosse quando è uscito dall'armadio, ed ho pensato...” Si fermò a cercare le parole: “Una preda così prestigiosa... DEVE finire nel mio carniere!”
Il poliziotto annuì: “E se gli avessimo impedito di toccare la maniglia ci sarebbe. Vabbè, qua penso io a rimettere tutto a posto, tu vai in città e rilassati, è un ordine della polizia tedesca.”

“Agli ordini, signor tenente” fu il saluto di commiato del Konvitato.  

Quinto scontro: Il Konvitato Vs. Torsten Dollinger. Primo Round.

Il Konvitato si sfregò il mento, mentre aspettava il caffè. Pensò che le donne che sanno guidare gli elicotteri fanno il miglior caffè del mondo, e che era stato molto fortunato ad essere stato invitato da una di esse.
Chiese alla donna se per caso avesse rasoi, lei disse di no: “Tutti e sedici i miei trisnonni erano Cebu, e in questo appartamento non è mai entrato un uomo.”
Il Konvitato stentò a credere alla sua fortuna, e pensò che in fondo affrontare la giornata con un' ombra di barba era un piccolo prezzo da pagare per il caffè che ora gli veniva messo davanti.
I due decisero di fare una passeggiata, la donna doveva andare al lavoro a mezzogiorno, il Konvitato avrebbe molto volentieri speso il resto della sua licenza a casa con lei... ma anche tutta la vita.
Alle undici si salutarono.
La giornata era meravigliosa.
Andò in piazza degli ebrei per salutare Leyla, prima di andare a trovare il tenente di polizia e trovò Amelio Vaironi che discute­ va col direttore del locale, Leyla non c'era. Facendo finta di essere un turista francese (che odiava a morte gli ebrei), il Konvita­ to si concesse lo sfizio di prendere bonariamente in giro Vaironi, e si fece raccontare la disavventura al minimarket thailandese.
Pensò che se Vaironi avesse venduto quel soggetto ad Hollywood avrebbero potuto farci 50 films, pagò il proprio conto e quel­ lo di Amelio.
Mentre Amelio si allontanava mannaggiando su non meglio precisati complotti, Il Konvitato rilesse la lettera che un tenente di polizia gli aveva fatto recapitare in albergo, lo aveva invitato al commissariato per un caffè in amicizia.
Mostrò la lettera al direttore del locale, e gli chiese se la parte scritta in inglese corrispondeva a quella scritta in tedesco.
Il direttore, prima di prendere in mano la lettera disse: “Il tenente Dollinger è uno con le palle. Vuole tenere la città tranquilla, per quanto può, quindi quando arriva uno grosso gli piace farci una chiacchierata, se non ci vai tu viene lui da te.”
Il Konvitato si pizzicò la guancia e disse: “Per essere grosso sono grosso.”
In quella entrò Leyla e disse: “è anche affascinante, quando non sono andata da lui è venuto qui e mi ricordo che mi disse: ”Che sollievo, mi sarebbe dispiaciuto molto di apprendere che il motivo della sua assenza fosse di salute. Non mi fraintenda, non era assolutamente una convocazione, solo una conversazione amichevole per farla sentire più a suo agio in una città che all'inizio poteva sembrarle ostile.”
Il Konvitato prese la lettera in mano e osservò: “l'ultima frase è scritta nella lettera che ho ricevuto...”
Leyla annuì: “Deve averla messa dopo... Si, la ricordo come se fossi un registratore di MP3”
Il Konvitato rimise la lettera in tasca e disse: “se non sentite mie notizie, portatemi le arance.”
Leyla ne prese una da una fruttiera a portata di mano e la soppesò, “Te ne tiro una in testa, se non la pianti con questi scherzi!”
Il gigante batté in ritirata ridendo.
Lungo il tragitto pensò che sarebbe stato meglio se l'interminabile conflitto fosse stato deciso da un “Orange game”. Chiara­ mente i palestinesi avrebbero vinto, ma almeno avrebbe saputo come finiva.
Arrivò in pochi minuti al commissariato di polizia, suonò al campanello.
Dopo pochi secondi una voce chiese chi fosse e perché fosse lì.
Il Konvitato scandì: “Buongiorno, mi chiamo Yigal Kaplinskji, e ho un appuntamento con Torsten Dollinger.”
La voce disse: Al pianterreno prenda il corridoio a sinistra, suoni alla porta di fronte a sé, poi un ronzio comunicò al Konvitato che il pesante portone si sarebbe aperto con una semplice spinta.
Il guardiano, all'interno pensò bene di ripetere le istruzioni per raggiungere l'ufficio dove era desiderato.
Il Konvitato bussò alla porta, ed una poliziotta lo fece entrare. Dietro alla porta c'era un uomo.
Yigal lo misurò in uno sguardo, alto circa un metro e novanta, cioè quindici centimetri meno di lui, pesante sul quintale, cioè quaranta chilogrammi più leggero. Per la gente comune un maciste, per cui doveva essere un' esperienza nuova l'essere guarda­ to dall'alto in basso.
Il volto era semplicemente perfetto per impersonare un qualche soldato nazista di quelli che ostacolano Indiana Jones affrontan­ dolo di persona a pugni.
L'uomo parlò in inglese alla poliziotta: “Spero non ti dispiaccia se usiamo questo ufficio per un' oretta”. Batté con le nocche sul vetro blindato, e si affrettò a rassicurare il Konvitato: “Sono sicuro che dieci o quindici minuti basteranno, comunque ricordi che non è tenuto a stare qui, se non vuole, anzi: la ringrazio per la sua cortesia.”
Yigal annuì, la poliziotta se ne andò.
“La porta della stanza si può aprire solo da dentro o da un ufficio al piano superiore” spiegò l'uomo che ormai per il Konvitato era chiaramente Torsten Dollinger.
Un ronzio confermò la possibilità di aprire la porta girando la maniglia e tirando.
Dollinger entrò per primo, e si sedette ad una delle due scrivanie, davanti alla quale c'era una sedia.
Yigal notò le inferriate alle finestre, un armadio e una scaffalatura piena di raccoglitori.
“Troppo piena” pensò, ma non ci fece altro caso. Si avviò verso la scrivania dove sedeva Dollinger e si fermò.
“Prego, signor Kaplinskji, si accomodi.” accompagnò l'invito con un movimento della mano.
Yigal sperò che la sedia reggesse i suoi centoquaranta chili, mentre si sedeva disse, sinceramente ammirato: “hey, bel trucco, mi dice come funziona?”
Dollinger si grattò il naso, e disse: “Avrà già capito che quando ha suonato al campanello, il portiere mi ha detto il suo nome”
Il Konvitato annuì, Dollinger proseguì: “Così, inizia il movimento come se le dita fossero legate al muro dietro di lei con elasti­ ci, quindi muove il polso, e quando è quasi arrivato porta fluidamente le dita nella posizione finale”
Il Konvitato espresse ammirazione: “Fantastico, per un istante mi son sentito come se lo scopo di tutta l'esistenza fosse il mo­ mento di sedermi su questa sedia. Immagino che sui militari come me funzioni meglio, comunque rimane uno studio notevole.”
“Se non è d'aiuto, comunque non è di nocumento. Se mi vuole scusare un attimo... Ah, da qui in poi può darmi del tu.”
Il Konvitato grugnì “Altrettanto”
L' attenzione del Konvitato cadde su un oggetto curioso: una scatola di ciambelline identica a quelle mostrate nel cartone ani­ mato “I Simpsons” Ai lati della scatola non c'erano né i valori nutrizionali, né il codice a barre, nella scatola c'erano sette ciam­ belline, con la glassa di diversi colori, probabilmente la scatola intonsa ne conteneva... 12 e mezzo?
“meglio se non le tocchi, son lì da mesi” disse Dollinger mentre stava leggendo un incartamento.
Il Konvitato guardò meglio e vide che sul fondo della scatola non c'era né zucchero a velo né perline colorate, e d'istinto disse: “Sono di terracotta?”
“Resina” precisò Dollinger, una scultura della mia nipotina.
Il Konvitato fece scorrere lo sguardo, e vide il prisma con su scritto “Dollinger”.
Dunque quella era la sua scrivania, e aveva chiesto alla collega di lasciarli soli. Non seppe spiegarsi perché Dollinger aveva vo­ luto fargli credere di aver preso l'ufficio in prestito per poi ostentarne il possesso.
Dollinger parlò: “Sai, ci sono città famose nel mondo, Venezia, Parigi” fece una pausa e proseguì: ”Gerusalemme, al tuo paese, so che ci vengono molti turisti.”
Il Konvitato ne convenne, pensava di sapere la frase seguente, ma si rese subito conto che si sbagliava, anche se di poco.
“Questa città è molto bella, è ricca di storia perché molti uomini intelligenti hanno detto: “che bella città, quasi quasi mi metto a studiare qui piuttosto che...” ...Bè, dovunque fossero prima.” Iniziò Dollinger.
Il Konvitato disse: “Me ne sono accorto, è pieno di targhe di famosi studiosi”
Dollinger disse: “Ed ora ho questa strana coincidenza, persone che si conoscono sono venute qui, apparentemente senza sapere le une delle altre, io vorrei sapere quanto è corretto...” alzò le mani, e con gli indici e medi ad uncino fece un gesto a dire che la parola successiva andava virgolettata: “Apparentemente”
Il Konvitato disse: “Visto anche questo. Proprio oggi ho offerto la colazione ad Amelio Vaironi”
Se il poliziotto fu sorpreso dalla risposta del Konvitato non lo diede a vedere, invece chiese: “Come sta, il signor Vaironi?”
Il Konvitato rispose: “Credo non navighi in buone acque, ma complessivamente mi è sembrato in buona salute”
Dollinger chiese: “Hai notato medicazioni o tagli?”
il Konvitato, non capendo a cosa si riferisse Dollinger fece di no con la testa, e disse: “Niente di vistoso, aveva un graffietto sul­ la fronte, ma di certo non ti riferisci a quello.”
Dollinger sorrise, e chiese: “ti ha detto come se lo è procurato?”
Il Konvitato opinò: “Penso sia capitato a tutti, tipo quando girano per la casa di notte e incocciano in uno sportello lasciato aper­ to”
Dollinger fece fermare il Konvitato e disse: “Vorrei sapere cosa ti ha detto lui.”
Il Konvitato pesò l'aria, e spiegò: “Uno dei suoi racconti, era in un minimarket, la cassiera si è messa a discutere sui prezzi e su­ bito dopo è arrivata la guardia nazionale, la triade cinese, la yakuza, il dottor destino...” sottolineava ogni aggiunta con un movi­ mento della mano, come quello di un direttore d'orchestra ”l'interpol, Fiamma Nirenstein, Bradford, Terminator, i ragazzi venuti dal Brasile, i Backstreet boys, il batterista dei kiss, Daphne Rosen, tutte le forze del male, e naturalmente la stampa fascista a messo tutto a tacere.”
Dollinger sembrava leggermente divertito, il Konvitato pensò bene di spiegare: “Oh, non son stato a sentirlo di preciso, ma non sono andato molto lontano.”
Dollinger con voce allegra punzecchiò: “E ci mancava solo” indicò con la mano aperta Yigal e concluse la battuta: “Il tenente Kaplinskji” Trattenne il riso a stento.
Yigal invece scoppiò in un' aperta risata, riuscendo a dire, fra gli irrefrenabili accessi: “Bellissima!!”
Rise ancora, e scandì cercando di imitare non il tono di Dollinger ma l'accento di Vaironi: “E ci mancava solo il tenente Kaplin­ skji” Sospirò: “Quel tipo merita uno show in TV”
Dollinger scosse la testa: “Qualcosa non gli funziona in testa, la gente non si divertirebbe, immagino che tu trovi difficile da ca­ pire cosa intendo dire.”
“Temo di non poterlo capire, ma non so cosa ci si possa fare, qui è pieno di persone che lo capiscono anche troppo.”
Dollinger indicò sé stesso coi pollici e disse: “Ha dovuto accontentarsi del tenente Dollinger”
“Cosa stava combinando?” Chiese l'israeliano
Dollinger sospirò: “Torniamo alla peculiarità di questa città, sembra attirare personalità notevoli, Vaironi stava attaccando briga con Ivan Liebermann, ne hai sentito parlare?”
L'altro rispose: “Anche lui è qui? Povero Amelio, beccare Liebermann al supermercato in una bella cittadina tedesca...”
Il poliziotto si premurò: “Ivan è un gran pugile, ma fuori dal ring non si permetterebbe mai...”
Il Konvitato rise: “Dico, è in una città tedesca che non fa duecentomila abitanti... Becca Liebermann, il thailandese alla sera... Probabilità: una su cento miliardi...” indicò se stesso: “ il tenente Kaplinskji il mattino dopo.... e non riconosce nessuno dei due. Avrebbe potuto inventare chissà cosa sul suo blog e non lo saprà mai.”
Dollinger ne convenne, e chiese: “Ho letto il rapporto di Vaironi sulla disavventura di ieri, devo dire che è stato estremamente creativo. Com'è che il signor Vaironi questa mattina non ti ha riconosciuto?”
Il Konvitato rispose: “Non mi ha mai visto, sa solo che esiste un tenente di fanteria dell'esercito israeliano che si chiama come il suo personaggio, Yigal Kaplinskji”
Dollinger insistette: “Come ti sembrava il suo show?”
Il Konvitato alzò le spalle: “Per me era uno scherzo, i commilitoni mi prendevano per il culo imitando l'accento di Vaironi, e la mia stazza ha fatto il resto.”
Dollinger guardò il Konvitato. Era sicuro di non aver mai visto un uomo così pesante e atletico allo stesso tempo, sembrava uno di quei giganti del wrestling americano.
“Bene, questa la abbiamo risolta” concluse Dollinger.
Il Konvitato ridacchio, e si scusò: “Dammi un minuto solo... “E ci mancava solo il tenente Kaplinskji”... troppo forte, scusa, mi ricompongo subito.”
Appena l'israeliano riuscì a tornar serio Dollinger proseguì: “Immagino ti trovavi in quel bar perché sei in rapporti di amicizia con la... qui la chiamiamo “Bella di notte” ”
Il Konvitato si grattò la testa e disse: ”Si, esatto, solo una cosa... “Hayat” significa “Vitale” e non bella.”
Dollinger spiegò: “Non lo sapevo, comunque il soprannome deriva dal fatto che... sarebbe anche una bella ragazza, adesso che si sta diffondendo la moda del fitness, ma ha sempre quell'espressione...”
Il Konvitato assentì: “non ha avuto una vita facile, povera ragazza.”
Dollinger interruppe Yigal: “Non intendiamo arrestarla, quello che ho letto su di lei mi ha fatto drizzare i capelli, ma al momen­ to non ce ne è la ragione. uno di questi giorni ne riparleremo, se ti va.”
Yigal stupito disse: “Non c'è un mandato d'arresto su di lei, e ti garantisco che non avrebbero mandato me ad occuparmene.”
Dollinger si grattò il naso e corresse il Konvitato: “Come persona sono curioso di sapere come mai non vi siete saltati alla gola a vicenda, ma ora vorrei dirti che c'è un' altra personalità notevole, in città.”
“Parli di Sivan Lutchky?” Chiese.
Questa volta il tenente Dollinger fu, suo malgrado, strabiliato.
“Come lo hai saputo?”
“Me lo ha detto Christiana Bradley, l'elicotterista dell'ospedale.”
Incredulo, Torsten si fece con l'indice il segno della croce sulla guancia destra, il Konvitato confermò con un movimento della testa.
“Maledetti ebrei, tutte le fortune vengono a voi.” Lo disse con un esagerato tono di repulsione, e i suoi occhi sorridevano. “Adesso non so se iscrivermi ad Hamas per l'invidia o se andare a convertirmi sperando che capiti qualcosa di simile anche a me.”
Yigal si lasciò scappare una risatina e celiò: “Se ogni tanto non capitasse un miracolo, non saremmo durati tanto a lungo.”
Una voce stranissima, profonda e metallica, che faceva pensare al rumore del nastro adesivo da pacchi che viene srotolato inter­ ruppe la conversazione: “Scusate...”

Yigal e Torsten si guardarono intorno per cercarne l'origine, nella stanza blindata.